Che avrebbe fatto Carlotta la Pasionaria se suo padre avesse avuto un blog?

Fra il 2001 e il 2004 mio marito, Fabrizio Venerandi, ha tenuto una rubrica su una rivista di informatica, MacWorld, scrivendo racconti sulla vita quotidiana di un uomo e della sua famiglia alle prese con il mondo, l’informatica, e i computer Apple. I racconti erano parzialmente autobiografici, facevano parte di una serie titolata “Io e Cecilia” (il mio nome), e prendevano spunto da fatti realmente avvenuti, a noi o -meno spesso- ad altri, per allargare il discorso, con ironia e leggerezza, a tematiche più ampie. Continua a leggere

Facebook e minori, è andata a finire che non ho rispettato le regole

Dopo letture e riflessioni, ho deciso di (far) aprire l’account Facebook al primogenito undicenne.

Le regole di utilizzo impongono un’età minima di 13 anni, ma alla fine l’opportunismo e le mie necessità hanno prevalso.

Necessità: quali? Quella di poter lavorare assieme sull’account, di mantenerne le password, di utilizzarlo come strumento condiviso, come se fosse un libro da leggere. Francamente mi auguro che, a tredici anni, il ragazzetto si rifiuti di darmi le password dei suoi profili sui social network, a tutela della sua privacy anche da quei ficcanaso dei genitori, come età suggerisce.

L’utilizzo? A detta sua,  la prima ragione sta nel poter ‘controllare quel che dicono i genitori di lui in rete’ (e ha ragione!), seguita da ‘restare in contatto con i compagni di classe’. Per me è un luogo che utilizzo per segnalargli tramite link riflessioni, idee e suggerimenti trovati in rete, di cui parlare in seguito, magari a cena (e controllarlo disperatamente, of course). La difficoltà maggiore per ora sta nell’abbondanza di video con animali massacrati, assurdi atti di crudeltà e scempiaggini varie totalmente al di fuori dal nostro comune orizzonte che lo colpiscono pesantemente, oltre al fatto di aver portato mio figlio a mentire sui suoi dati compilando una scheda anagrafica.

Voglio essere cresciuto ‘alla luce della scienza e della tecnologia’

Nicco figlio decenne guarda il mio pancione con aria assorta, poi esclama ‘Sai mamma, questo bambino che deve arrivare, vorrei che lo tirassimo su alla luce della scienza e della tecnologia‘. China la testa come se non avesse detto niente e riprende a mangiare.

Resto interdetta: in una casa dove vi sono più computer che teste pensanti il passaggio dal medioevo all’età dei lumi l’ho sempre dato per scontato, e poi… già un figlio si trova a dover combattere con le aspettative dei genitori, ma che un terzogenito che se la dovesse vedere anche con quelle dei fratelli maggiori non lo avevo immaginato.

In realtà il discorso procede più avanti, quando entrambi siamo in grado di gettare un ponte fra i nostri pensieri, e di trovare le parole per raccontarli.

E quando lo ascolto capisco di non aver compreso nulla.

Mi spiega che non può far a meno di farmi notare –senza offesa– che non è il numero di computer, il loro utilizzo professionale o l’essere in grado di destreggiarsi fra novità tecnologiche, tecniche di comunicazione e relazioni virtuali a rendere un adulto adatto a ‘comprendere le esigenze di un nativo digitale’ (l’espressione è mia e nemmeno mi piace): gli adulti sono di una generazione precedente alla sua, lui la tecnologia la sta usando ‘ora’, la ha sempre usata, e sa meglio di me come vada raccontata, comunicata.

Io la ‘spiego’: lui la sperimenta.

Parliamo di pen-friends: racconto dell’amico di penna della mia infanzia, delle lettere scritte a mano con gli adesivi colorati e i disegnini e i cuoricini, l’acquisto del francobollo e la buca della posta e poi l’attesa della risposta (che in questo caso durava mesi: il mio amico di penna stava in Romania, e oltre che con la lentezza delle Poste dovevamo vedercela con la censura). Lui non si stupisce e “Bene -risponde- io e il mio amico L. di Roma ci scriviamo in giornata, se vogliamo chattiamo, e penso che ci conosciamo molto meglio di quanto tu potevi conoscere il tuo amico di penna. Stiamo scrivendo un romanzo a quattro mani: un file condiviso su Googledocs e ci possiamo lavorare entrambi in qualsiasi momento. Tu non capisci che questa è una cosa ‘normale’: non la devi spiegare a un bambino, come non mi hai mai spiegato come si sale su un autobus. E non devi strabuzzare gli occhi come se stessi parlando del futuro o di qualche tecnologia che, mi spiace per te, ai tuoi tempi non esisteva. La hai imparata”.

Parliamo della rappresentazione dell’infanzia nella letteratura per ragazzi: narrativa scritta da adulti che raccontano come si immaginano che possa essere il mondo vissuto da ragazzini ipertecnologizzati (o peggio: che enumerano, con presunte finalità educative, rischi e difficoltà dell’utilizzo dei nuovi media). Perché bisogna raccontare che il protagonista parla al cellulare con i suoi amici? Ha tredici anni: anche se non lo si dice espressamente, lo avrà certamente in tasca il telefonino. Chatta su Facebook e guarda video su Youtube? Sarebbe una notizia se non lo facesse. Queste son cose così intime e scontate che nemmeno se ne deve parlare.

So che io per prima se dovessi scrivere una fiaba con protagonista un bimbo che scrive un romanzo a quattro mani con un altro ragazzino che vive a 500 km di distanza non potrei che farne il centro della trama, soggetto emblematico dei tempi che cambiano. Per Nicco non è altro che sfondo: colore, vita quotidiana. Parole inutili che non permettono di proseguire nel raccontare ciò che è veramente importante: di che paure e di quali sogni ‘attuali’ scrivono due bambini di dieci anni, su googledocs o su quaderno a quadretti?

Non posso crescere un figlio ‘alla luce della scienza e della tecnologia’ perché la scienza e la tecnologia mi stupiscono quotidianamente per quel che mi stanno pemettendo di fare, e le mie parole se ne vanno nel raccontare questo stupore, nell’inquadrare possibili utilizzi e ipotetici pericoli. Potrà farlo solo chi non avrà bisogno di parole per raccontarlo: per coloro che per cui la rete non sarà più oggetto di discussione, e sentirne parlare… una noia infinita.

‘L’arte delle donne’

Il colpo di grazia me lo dà Niccolò: il figlio colto e appassionato, speranza e Sol dell’Avvenire, che a cinque anni ha rifiutato gli albi illustrati comprati dopo l’ennesimo seminario su bimbi e lettura esclamando “Ma questi son libri per mamme! Ci trattano da scemi, servono solo per far felici voi grandi”, e cresciuto a mostre, cataloghi d’arte, letture condivise su attualità e libero accesso alle sezioni per adulti delle biblioteche.
Il novenne sfoglia sul divano Alfabeta2, e mi chiede cosa siano queste ‘Arti delle donne’. Gli domando se secondo lui esistono ‘arti’ -occupazioni- in cui le donne eccellono e lui mi risponde ‘Certamente: le donne son più brave degli uomini a tessere la tela, cucire i vestiti. Io di donne artiste non ne conosco‘.
Capisco che è meglio fermarsi, alle sette e mezza di mattina non sono padrona delle mie reazioni.

Potrebbero essere solo piccoli equivoci senza importanza, ma unendo i puntini assieme il disegno che emerge non pare casuale.
Come la giornalista che mi chiama per un’intervista su Quintadicopertina, mi trova libera e disponibile ma subito mi dice ‘Forse non ha capito signorina, non voglio parlare con un’impiegata lei mi deve mettere in contatto con il suo Capo‘ e non ha detto superiore: aveva proprio bisogno di un uomo.

Come mia madre, che rifiutando apertamente una conversazione in proposito, cerca in rete ‘ebook Fabrizio Venerandi‘ per capire cosa sia Quinta, finendo con l’iscriversi al forum della Simplicissimus e registrarsi al sito di Bol.it, senza avere un’idea di cosa ‘suo genero‘ stia combinando questa volta.

O il giornalista che mi chiama perché vuole me, perché per par condicio si son resi conto che parlano troppo di uomini e necessitano di una donna -qualunque ruolo abbia- per pareggiare i conti.

L’amica progressista mi dice che ho torto perchè ‘uso la mia femminilità nel modo sbagliato‘: curo poco corpo e aspetto, come se la conquista delle donne negli ultimi trent’anni fosse aver guadagnato l’ora fra le sette e le otto per truccarsi in bagno piuttosto che fare lavatrici, si paga in nero nove euro l’ora la colf sudamericana (donna).
In compenso -prosegue- parlo apertamente di aborto, figli e incombenze domestiche e insisto fastidiosamente nell’enumerare conti e spese quotidiane.

E’ un brutto neo nella rappresentazione di me stessa, una falla profonda del mio marketing personale. Non mi dovrei permettere di dire che a perdere un figlio al quarto mese di gravidanza si soffre perché mi mostro debole, non dovrei esporre troppo quel vivere reale fatto dei miseri problemi che circondano la gente e le donne. La summa di quei piccoli particolari (scuole con orari che non vengono incontro, costi del pubblico superiori al privato, riunioni convocate senza tener conto delle esigenze lavorative dei genitori e via crescendo), che finiscono con far chiedere a una coppia se non sarebbe più conveniente che uno dei due ‘stesse a casa’ (ché lo stipendio medio in Italia si aggira sui 20 mila e non sui 30).

E’ giusto che Nicco dica che ‘Papà fa l’editore, e mamma gli tiene i contatti e i conti‘; riproduce nel lavoro quel che faccio per lui: pagare l’atletica, andare alle riunioni scolastiche, stabilire tempi e impegni della giornata.
Di per me, continuerò a non rispondere alle mamme dei compagni di scuola che hanno Fabrizio come referente ma chiamano me per parlare con una ‘donna’, e fare le lavatrici fra le sei e le sette, che il costo di una colf con contratto e contributi si aggira sui 70 euro a mezza giornata e non 36, e che la dignità mia e sua ce la costruiamo con rispetto dei reciproci diritti. Personalmente il rispetto me lo guadagno per le banalità che compio ogni giorno a casa e lavoro, lavatrici comprese, e non attraverso un immagine forse più attraente, ma ben distante dalla realtà del vivere quotidiano.