Se il self-publishing è il dito, la redazione è la luna che perdiamo di vista

Il mio ‘battesimo del fuoco’ nel mondo dell’editoria digitale lo ho avuto due anni fa a Fosdinovo, quando mi toccò in sorte moderare un originale dibattito sulla Teologia della redazione a venire“. Ingenua e ottimista ho accettato, onorata di potere, assieme a ‘vecchi’ personali miti dell’editoria come Virginio Sala, Mario Guaraldi, Agostino Quadrino, provare a delineare le competenze necessarie per il lavoro redazionale a cavallo fra carta e digitale. Fra chi l’editoria la vive da trenta e più anni e chi prova adesso per la prima volta a proporre innovazioni.

‘Content is the king!’: la redazione al centro, era il mantra che si ripeteva in quel periodo (in ottica web, praticamente un’era geologica).

Oggi invece stiamo cercando di denudarlo, il re, scannandoci su ruolo e definizione del self publishing, forse ignorando che dietro questo dibattito sta avvenendo un cambiamento che inficia mille volte di più l’attività editoriale. Il self publishing c’è, avrà dimensioni sempre più importanti, e negarlo non aiuta. E’ un’ottima iniziativa, soprattutto per i distributori, esulta chi ha in mano le nuove chiavi di accesso ai prodotti culturali, ed è utile anche per chi scrive benino e pubblica senza magari pensare che, faticando un po’, potrebbe scrivere benone.

Che il cambiamento sia importante lo dimostrano anche gli attori che entrano in scena: Feltrinelli, Mondadori, e altri editori italiani tradizionali che guardano questo nuovo albero digitale che, se non farà frutti d’oro, almeno potrà permettere di sopravvivere.

Però scusate: con Mondadori e Feltrinelli non stiamo più parlando di self publishing, ma di un prodotto ibrido che toglie l’indipendenza all’autore indipendente (e solitario) in cambio di un marchio solido alle spalle.

E in questo passaggio, in cui l’autore si crogiola nella speranza di avere più visibilità, la vittima illustre è la redazione: si investe meno in editing, si lavora meno sul testo, la cura editoriale è messa in secondo piano (è un discorso che sta spiegando molto bene Tropico del Libro in diversi articoli, per chi ha la pazienza di leggerli con attenzione).

Non c’è aggiornamento che tenga per i redattori che frequentano, a proprie spese, corsi di formazione sul digitale per tenersi al passo, quando gli editori non investono più sulla redazione.

E il marchio dell’editore potrebbe non assicurare il valore aggiunto della cura redazionale del testo a lettore ed autore.

Il dibattito sull’editoria che verrà non può in questo caso prescindere da una discussione su temi politici e culturali che metta da parte la questione “self publishing: sì o no” e che riprenda in mano il ruolo di questa ‘redazione a venire’: dei contratti di lavoro che la regolano, della formazione, di colossi e meno colossi editoriali che democratizzano l’accesso alla pubblicazione abbattendo le barriere d’ingresso e che – contemporaneamente – ostacolano la produzione e promozione di contenuti culturali.

Parlare di questo: che in fondo tutto il resto è vanità.